L’Esposizione Universale si è chiusa lo scorso weekend dopo 6 mesi dalla sua inaugurazione avvenuta il 1° Maggio scorso. Sin da quando ha avuto inizio, nel 1851 a Londra, l’esposizione universale è stata il palcoscenico ideale per mostrare la grandiosità e l’ingegno dei traguardi che sono stati conquistati dall’uomo. Probabilmente il monumento più famoso al mondo, lasciato dopo l’Esposizione è la Tour Eiffel, che avrebbe dovuto essere smantellata, ma fortunatamente il suo destino prese un’altra piega diventando uno dei monumenti più visitati al mondo. E di questa Expo Made in Italy invece cosa resterà?
Due a mio parere i simboli di questa edizione italiana: l’albero della vita e…le file! Il tema portante era il cibo, la biodiversità con un occhio per chi invece, il cibo fatica a procurarselo.
Di tutto questo a livello di visitatori a mio parere resta ben poco. Expo per me si è ridotta a vedere le belle strutture dei padiglioni esterni, pochissimi all’interno e degustazioni assenti.
Secondo i dati, Expo 2015 ha generato “quasi 24 miliardi di export agroalimentare nei primo otto mesi del 2015. Con una ricaduta formidabile sul turismo, specie a Milano”, ha commentato Maurizio Martina, Ministro alle Politiche agricole con delega all’Expo.
Nove mila gli operai che hanno costruito il sito e oltre 10mila le persone che, tra impiegati e volontari, hanno prestato servizio alla Fiera Rho. Secondo le stime effettuate da Euler Hermes l’attivo generato ha raggiunto i 3 miliardi di euro, includendo l’indotto, per uno 0,1% di crescita del Pil.
L’Italia ha rafforzato la sua diplomazia economica nel Mediterraneo. E la leva della cooperazione agricola e alimentare si è rivelata un asset cruciale. Durante questi sei mesi ci sono stati più di 50mila incontri tra imprese, e moltissime delegazioni internazionali hanno visitato i nostri distretti produttivi.
Sarà ma noi dobbiamo credergli sulla parola perché Expo mi ha lasciato tanto amaro in bocca da un lato, un senso di grande unione, al di là della globalizzazione dall’altro.
Avere tante culture diverse in un’unica location mi ha dato una sensazione di grande armonia, generata dalla consapevolezza che la diversità è bellezza e scoperta, è stimolo alla conoscenza e alla curiosità, è meraviglia di fronte alle potenzialità del genere umano.
Allo stesso tempo non ho percepito il tema portante, quello del cibo, passato per me in secondo piano e poi le file estenuanti hanno smorzato gran parte dell’entusiasmo. Ai padiglioni più gettonati le file erano chilometriche, quelli meno affollati in genere erano anche i più deludenti all’interno.
E poi i disagi anche per raggiungere l’esposizione con sovraffollamento dei mezzi pubblici, ritardi, parchimetri fuori servizio, tutti elementi che hanno complicato gli spostamenti soprattutto al rientro, quando si è già sfiniti per il camminare e il lungo attendere.
Insomma avrei preferito innanzitutto più organizzazione, più interattività, più cibo, più degustazioni, più convegni, può attività, anziché una sfilata di costruzioni belle esteticamente, ma che non centrano il bersaglio.
Alla fine della fiera comunque sono arrivati anche i soliti riconoscimenti. Il Giappone che ha portato le code per la visita anche a 6 ore si è aggiudicato il riconoscimento di miglior padiglione.
Il premio per i contenuti è andato invece alla Germania. Sul tema architettura oro alla Francia, piazzamenti per Bahrain e Cina. Per la categoria Cluster gli allestimenti migliori sono stati quelli del Montenegro, argento al Venezuela, bronzo al Gabon. Per lo sviluppo del tema si è imposta l’Algeria, seguita da Cambogia e Mauritania.
Nadia Sessa